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A 36 anni in terapia intensiva per il Covid 19: “Quando ho riaperto gli occhi ho capito di essere vivo e di avercela fatta”

Trovarsi da un giorno all’altro sospeso tra la vita e la morte con un tubo in gola, a soli 36 anni, S.T. giovane bergamasco è uno dei tanti che ha dovuto superare il Covid 19, uno di quelli che ce l’ha fatta rischiando comunque molto. “Non ho mai avuto malattie particolari, non sono uno sportivo ma conduco una vita del tutto normale. Sentivo parlare a fine febbraio ed inizio marzo del Coronavirus ed ovviamente un po’ di apprensione ti metteva. Il 10 marzo ho avvertito i primi sintomi ma avevo febbre che andava e veniva, non avvertivo nessuna mancanza di gusto, cosa che di solito dovrebbe contraddistinguere i malati di Covid 19 e quindi non immaginavo di aver contratto il virus. Dopo pochi giorni ho iniziato ad avvertire i rimi colpi di tosse e nel giro di pochi giorni è comparso il catarro misto a sangue. A quel punto  ho chiamato l’ATS, un’ora e mezza per prendere la linea, a quel punto mi hanno mandato un’ambulanza e mi hanno ricoverato al sant’Anna a Brescia. Sull’ambulanza avevo una ossigenazione al 70%, con l’ossigeno era salito all’85%. Quello che provi è una mancanza di aria, respiri ma sembra che non ci sia ossigeno e fai fatica, ogni passo ti pesa moltissimo. Una volta ricoverato i dottori mi hanno detto che la mia situazione era critica e mi dovevano sedare per mettermi in terapia intensiva. Io ho semplicemente detto alle infermiere che erano liberi di fare qualsiasi cosa pur di salvarmi. Sono andato in terapia intensiva il 17 marzo e mi sono risvegliato il 22 marzo. Anche i dottori temevano che non ce l’avrei fatta invece alla fine sono uscito sano e salvo da questa esperienza. Dopo pochi giorni mi sono rimesso in piedi e sono uscito dall’ospedale. Ancora oggi sono in quarantena, assieme alla mia ragazza, che non ha fatto mai un tampone. Ho provato molte cose in quei giorni, speranza di farcela, felicità di essermi risvegliato ancora vivo, che poi è stato il primo pensiero che ho avuto quando in terapia intensiva ho riaperto gli occhi, solo in quel momento ho capito di avercela fatta. In ospedale mi hanno fatto la tracheotomia perché quando ero sedato mi agitavo e i dottori temevano che avrei potuto strappare via i tubi, è stata una decisione corretta, mi è rimasta la cicatrice ma almeno la cura ha funzionato meglio. La tracheotomia nei primi giorni non mi permetteva di parlare, mi esprimevo a gesti o scrivendo su un foglio”. La malattia, il ricovero e il contatto con i genitori rimasti a casa. “In ospedale i medici e gli infermieri sono stati molto disponibili, Tenevano aggiornati anche due volte al giorno la mia ragazza e i miei genitori. Quando mi hanno intubato hanno detto chiaramente che la mia situazione era critica ma stabile. La prima cosa che ho detto a mia madre è stata: “pensavate che non ce la facessi?” e lei ha risposto, “ci mancherebbe anche quello”, anche in quei momenti si cerca di sdrammatizzare”. Una malattia che ti cambia la vita: “Ora penso al domani, alla mia vita, prima non facevo attività fisica, credo che quando starò bene inizierò a fare sport. Oggi non posso far altro che ringraziare tutti i medici, in modo particolare l’infermiera Laura Comelli che mi ha assistito nei primi tre giorni, qui sotto il racconto di quanto lei ha scritto sul mio ricovero sul suo profilo Facebook”

Il racconto dell’infermiera:

Racconto di un’esperienza drammatica ma ricca di umanità e a lieto fine. S. Il ragazzo citato in uno dei post precedenti.

S. 36 anni, arriva in ospedale: sindrome respiratoria acuta, polmonite secondaria a covid19. Viene sedato e intubato; è così che l’ho “conosciuto”. Inizialmente portato in sala operatoria per la presenza di un ventilatore che gli permetteva di respirare. Successivamente gli viene fatta una tracheotomia. S. Continua a essere sedato e attaccato a un ventilatore. Una volta liberato un posto in terapia intensiva viene trasferito lì. Domenica 22 marzo si decide per la sospensione della sedazione. Dopo qualche ora lo chiamo con il suo nome e lui apre gli occhi. Finalmente. Attendo che sia abbastanza lucido e che smaltisca la sedazione per spiegargli dove si trova, per dirgli che non può parlare perché ha un tubo nella trachea, che è da lì che respira grazie all’aiuto del ventilatore. Gli dico che andrà tutto bene. Lui cerca di comunicare. Usiamo la comunicazione non verbale: sguardi, gesti; lui cerca di scandire le parole con le labbra anche se inizialmente era molto difficile capirlo. Era debole. Proviamo con un foglio con scritte le lettere dell’alfabeto, ma indicarle per lui era ancora troppo difficile. Iniziamo a “conoscerci”, solo con degli sguardi iniziamo a capirci e anche a tenerci compagnia. Ogni giorno lui migliora, riprende le forze, riesce a scandire le parole con le labbra, io riesco a capirlo; lo informo e ci accordiamo ogni volta che devo effettuare qualche procedura fastidiosa ed invasiva. Lui si affida totalmente a me, a una sconosciuta. L’unica che vedeva per 12 ore al giorno. Due domande mi sono rimaste impresse: “è giorno oppure notte?”, “Sto andando bene?”. Potevo leggere nel suo sguardo la paura, che era anche la mia, e lo smarrimento. Quattro mura, niente finestre, solo i suoni dei monitor e dei ventilatori. Ma lui era tosto, continuava a migliorare e così abbiamo iniziato a svezzarlo dal ventilatore, con successo. Ora S. Sta decisamente meglio; respira da solo, può parlare grazie ad una valvola chiamata fonatoria. Ha lasciato la terapia intensiva ed è stato trasferito in reparto. Ora che può parlare mi ha raccontato la sua esperienza. Mi ha detto che ricorda quando l’ho chiamato per nome e ha aperto gli occhi, ricorda che il suo primo pensiero è stato: “sono sveglio, sono vivo”; mi ha detto che le poche volte che è riuscito a dormire aveva continuamente degli incubi e che a volte faceva fatica a capire se stesse dormendo o fosse sveglio; mi ha detto che ha capito quanto fosse grave la situazione, quanto le sue condizioni fossero compromesse quando non riusciva nemmeno ad usare un dito per indicare delle lettere e poter comunicare: si è reso conto dei limiti posti dal suo corpo; era “prigioniero” del suo corpo. Mi ha raccontato della sua commozione quando gli hanno “restituito” la voce e di quando ha potuto bere. Mi ha raccontato della sua felicità quando è riuscito ad alzarsi da quel letto. Io che al lavoro riesco sempre ad essere così distaccata e professionale, in questo caso, in questa brutta situazione, insieme alla professionalità hanno vinto l’umanità e le emozioni. Sì perché S. non è solo un paziente, è una persona. S. Ha una famiglia, ha degli amici, ha una compagna. Così come tutti gli altri pazienti. Sono persone con una storia, con un vissuto e una dignità da rispettare. S. è l’unico paziente, l’unica persona con la quale, per ora, sono riuscita a parlare, a comunicare, l’unica che ho visto sveglia; per ora l’unico paziente che ho assistito e che ce l’ha fatta davvero. S. in questa tragica situazione mi ha insegnato molto e sicuramente non mi dimenticherò di lui, della sua tenacia, della sua forza di volontà, del suo sguardo.

I suoi successi sono diventati anche i miei!

S. Mi ha detto che un giorno gli piacerebbe scrivere qualcosa sulla sua esperienza, su ciò che ha sentito, provato, visto e subito. Io sarò contenta di potergli dare una mano a ricostruire questo breve, intenso e doloroso capitolo della sua vita, un capitolo che sicuramente non dimenticherà mai.

Vedere oggi un ragazzo di 36 anni (che solo due giorni fa era sedato e intubato, positivo al covid) ancora intubato ma in miglioramento e cosciente, mi ha fatto tirare un piccolo sospiro di sollievo. Forse ce la farà anche se ho letto nei suoi occhi tutta la paura ma anche la riconoscenza.

E poi vederlo chiedere, a gesti, di farlo riaddormentare così che non potesse vedere, almeno per un po’, quello che lo circondava, così che potesse dimenticare per qualche ora dove si trovava.

Questo è ciò che provano i “sopravvissuti” al covid.  Le persone che si risvegliano e hanno una chance, quella di vivere.

Ancora sospesi in un limbo che per loro è un incubo”.

Matteo Alborghetti